domenica 3 aprile 2011

Il Mediterraneo costituisce l’epicentro di un mondo sempre più disordinato

di:Salvo Andò
da: La Sicilia 
Il Mediterraneo costituisce l’epicentro di un mondo sempre più disordinato. Ma in questo disordine sembra già di cogliere i segni di un nuovo ordine possibile. Mai come in queste settimane, nel Mediterraneo s’incontrano le principali tensioni geopolitiche del Pianeta. Mai come in queste settimane, dagli equilibri di questa Regione dipendono anche gli equilibri globali. Dopo la fine della guerra fredda e della contrapposizione Est-Ovest, in questa regione viene messa, oggi, alla prova la capacità delle grandi potenze democratiche di promuovere i propri valori e difendere i propri interessi in una chiave pluralista e multipolare e non più, come è stato in passato, imperialistica e unilaterale.
Le rivolte popolari esplose nei paesi della sponda sud e del medio oriente segnano una frattura nella storia della regione: il mondo arabo non è più agitato dallo scontro tra il laicismo autoritario delle classi dirigenti (in genere, le caste militari), da una parte, e il fondamentalismo islamico delle masse diseredate, dall’altro. I cittadini arabi scendono, ora, in piazza (senza bruciare le bandiere a stelle e strisce o con la stella di Davide: non trascuriamo questo particolare) per chiedere libertà, informazione, pluralismo e progresso economico. Insomma, non è alle viste una nuova rivoluzione, una nuova “rivoluzione verde” di stile khomeinista, ma un processo riformatore che potrebbe produrre lentamente giovani classi dirigenti, desiderose di interagire politicamente e culturalmente con l’Occidente e, soprattutto, con l’Europa. Di queste nuove classi dirigenti dovrebbe occuparsi l’Europa, e soprattutto l’Italia, che in quel mondo ha sempre avuto un ruolo culturale, politico ed economico di grande rilievo.
Si dice Italia, ma non si può non pensare alla Sicilia, che costituisce la sponda dell’Europa più prossima,quella verso la quale corrono clandestini disperati. Il risveglio di questi paesi,un loro possibile “risorgimento” non può non essere vissuto dai siciliani come una grande opportunità.
Innanzitutto, la Sicilia si configurerebbe come una vera e propria “porta” dell’Europa (che nel mondo arabo viene a volte donominata la “fortezza Schengen”): il progresso dei nostri vicini del sud farebbe vivere meglio i paesi della sponda nord, farebbe rientrare comprensibili situazioni di allarme sociale che generano intolleranza e vere e proprie fobie verso l’extracomunitario. Inoltre, classi dirigenti più competenti ed oneste potrebbero meglio interagire con i nostri governanti, progettando insieme un progresso mediterraneo che è oggettivamente favorito dai nuovi assetti geopolitici che spostano dall’Atlantico verso il “mare nostrum” l’epicentro dei processi di crescita. Dopo Cina ed India arriverà la volta dell’Africa,soprattutto del Nord Africa. E la Sicilia si colloca nel cuore di queste nuove geometrie politico-economiche e – sottolineo questo punto – culturali.
Insomma, l’imperialismo culturale spesso è apparso come l’avamposto discreto di un imperialismo economico che pareva seguire antiche rotte. Sulle risorse energetiche, per esempio, si è sempre trattato cercando di spuntare le condizioni economiche più vantaggiose sui prezzi da pagare,e mai portando il negoziato sul terreno di una cooperazione tecnologica vantaggiosa per entrambe le parti,promuovendo per esempio efficaci forme di democrazia energetica. Analogamente, l’offerta di formazione è stata spesso un’offerta a senso unico,un invito ai loro giovani a venire da noi, magari per non più tornare nei paesi di origine;non si sono promosse nei paesi del sud iniziative cogestite che portassero i nostri centri di formazione nei paesi che si volevano aiutare.
Ora occorre invertire la rotta. Per questo, l’invito che ha rivolto alla classe politica ed agli intellettuali isolani nei giorni scorsi «La Sicilia» (vedi l’articolo del 28 marzo «La storia bussa alle porte di casa» a firma Giuseppe Di Fazio) merita di essere ripreso.
La Sicilia non può certo fare ,da sola, ciò che non riesce a fare il sistema-paese per rispondere alla sfida che le rivoluzioni del Nord Africa ci rivolgono. Abbiamo tuttavia il dovere di capire ciò che possiamo fare per chi bussa alle porte di casa, non evocando in modo retorico le importanti occasioni di incontro del passato, ma utilizzando tutte le opportunità che ci si presentano per svolgere un ruolo significativo all’interno dei processi di cambiamento che interessano l’area.Occorre anzitutto favorire con ogni mezzo la formazione di un capitale umano di buona qualità,indispensabile per realizzare i radicali cambiamenti del sistema sociale ed economico di cui hanno bisogno le nuove società che si delineano all’orizzonte.
Le nostre università sono ben disposte ad accogliere questi giovani, purché siano messe in condizioni di farlo attraverso investimenti indispensabili per riorganizzare l’offerta formativa e la ricerca. Si lamenta spesso la fuga dei cervelli dai nostri territori. In uno scenario geopolitico caratterizzato anche dalla circolazione delle conoscenze è assolutamente normale che i cervelli emigrino. Il problema nostro non può essere costituito da quelli che “fuggono”, ma da quelli che non vengono.
Avevamo, come a molti è noto, pensato di ospitare in Sicilia il Politecnico del Mediterraneo per accogliere giovani dei paesi del nord Africa, investendo, come siciliani, sulla crescita di paesi che hanno bisogno di una vitale borghesia che sappia traghettare quelle società da una economia di mera sussistenza ad una vera economia dello sviluppo.E’ questa la condizione per promuovere in quelle realtà lo stato di diritto e processi di secolarizzazione irreversibili.
Era quello del Politecnico un progetto che le università siciliane avevano condiviso, dichiarandosi disponibili a gestirlo insieme. Si trattava di mettere a frutto le eccellenze presenti nell’intero sistema universitario siciliano.
Ebbene,questo progetto non è stato difeso con la convinzione necessaria dalla politica, né a Roma né a Palermo; si è realizzato altrove quello che si poteva e doveva realizzare in Sicilia, dove esistevano le condizioni ambientali e i presupposti geopolitici e culturali giusti. La Sicilia, infatti, con le sue quattro università, che garantiscono un’offerta formativa molto ampia e variegata, un’attività di ricerca svolta da migliaia di ricercatori, che operano anche all’estero, attraverso una rete di laboratori che può contare su moltissimi punti di eccellenza , può costituire una piattaforma in grado di offrire servizi culturali di qualità ai paesi in via di sviluppo dell’area mediterranea.
A poco serve, comunque, recriminare sulle occasioni perdute.
Se i tempi che viviamo richiedono una forte progettualità condivisa per il rilancio del ruolo della Sicilia nel Mediterraneo si può partire riprendendo il progetto del Politecnico. Attraverso quel progetto, sarebbe possibile concentrare le risorse su un obbiettivo strategico non solo per la crescita della Sicilia, ma per candidare la nostra regione ad essere attore primario delle politiche dello sviluppo che coinvolgono la parte meridionale dell’area mediterranea. Inoltre, attraverso di esso, si darebbe vita anche a un progetto-pilota, valido a livello nazionale, per il superamento della cosiddetta “emergenza universitaria”. E’ noto a tutti, infatti, come le università non riescano ormai a garantirsi neppure i finanziamenti necessari per coprire la spesa corrente, mentre si continuano a finanziare corsi di formazione professionale che non servono a nessuno, nella convinzione che sia compito della Regione utilizzare come ammortizzatori sociali risorse che se bene investite nel settore della alta formazione potrebbero creare sviluppo. Ma se l’università interagisce con il territorio e, attraverso di esso, con il sistema degli equilibri geopolitici dell’area in cui è collocata, le risorse potrebbero arrivare. E’certo molto più utile una politica della cooperazione allo sviluppo che faccia circolare la conoscenza e consenta ai paesi della sponda sud di fruire dei risultati delle ricerca svolta nei paesi della sponda nord ,di un sistema degli aiuti,come quello gestito dal Ministero degli esteri, che spesso si limita ad “assistere” senza favorire uno sviluppo autopropulsivo.Qualcosa finalmente pare muoversi in questo senso.
Le Università e gli istituti di ricerca siciliani potrebbero costituire una risorsa davvero importante nell’ambito di una politica della cooperazione diversamente orientata. La Regione deve però fare la sua parte.
Si tratta, certo, di un obiettivo ambizioso, che non si può conseguire assecondando le spinte clientelari in materia di allocazione di risorse per la formazione, spendendo cioè i quattrini ,che non abbondano, senza avere una visione di insieme dei bisogni e delle potenzialità del territorio in cui si opera.
Ma non ci si può fare intimorire dall’ambiziosità dell’obiettivo. La posta in gioco, infatti, è molto alta: il ruolo della Sicilia – e, attraverso di essa, dell’Italia e della stressa Europa – nella costruzione di una nuova centralità geopolitica del Mediterraneo.